MatteoNunner.it

Una faccia, mille facce

Premio speciale della giuria al Concorso “Scriviamo Insieme” 2012, II Ed.

“Con una tecnica acerba che alla fine riesce a tradursi in una peculiare scelta di stile, l’autore riesce a trasmettere il senso di sgomento per la monotonia della routine alla quale molte persone devono piegare la propria esistenza, senza evidenti possibilità di scelta. Originale il modo espositivo, caratterizzato da un soffuso e freddo senso di grigiore; buona la scelta degli aggettivi, diretti, volutamente assai poco ricercati, perfettamente adatti al contenuto ed alle atmosfere. Estremamente comprensibile il messaggio: un semplice e inaspettato momento di luce è capace di esaltarci, seppur per brevi attimi; la nostra capacità sta nel coglierli e saperli rinnovare alla prima utile fortuita e inattesa occasione.”

Facce vuote. Facce che si sforzano di comunicare qualcosa ma falliscono inesorabilmente. Facce senza sapore alcuno. Ciniche, fredde , rassegnate, affamate, frustrate, indifferenti, vuote. Circondato da un numero incalcolabile di questi volti ogni giorno, ormai ci ho fatto il callo e tiro avanti. Tiro dritto. Saper giostrare la situazione, evitarli a testa bassa o con abili finte. È l’esperienza che ti salva. Costringere te stesso a mutare al punto da divenire quasi uno di loro, quasi distante come quelle facce, quasi impassibile come quegli sguardi. Questo per evitare che ti svuotino del tutto. Lo stesso veleno è l’antidoto. Scendo rassegnato nella sotterranea, come ogni giorno. Uno scalino alla volta, lentamente, nel gelido freddo mattutino. La testa è alleggerita, i pensieri fluttuano senza peso. Uno dei pochi vantaggi di un risveglio tanto duro. Tutto scorre così lontano, impalpabile e lento. Pian piano inizio ad assumere il passo di chi mi circonda, mi immetto nel grande flusso di corpi. Una folla agitata e sempre in ritardo, affamata, di corsa. Mi adatto, non ha alcun senso opporre resistenza. Il Don Chisciotte moderno depone le sue armi e si prostra. Un fiume implacabile di varietà umana, come una miriade di pulsanti arterie questi frettolosi cortei si snodano nelle viscere della terra, il centro della grande città corrisponde ad un vecchio cuore intossicato, e stanno tutte correndo verso di esso. È proprio qui che impatto con la realtà. Uno scontro inesorabile ed al contempo inevitabile. Migliaia di occhi mi superano velocemente da ogni lato. La maggior parte di questi svanisce in pochi istanti, trasportato lontano dalla violenta foga che lo spinge quotidianamente ad alzarsi ed a mantenere attivo l’enorme flusso palpitante. Ci dev’essere un scopo, qualcosa d’importante che non riesco a cogliere. Loro però l’hanno percepita da anni questa misteriosa causa, ma non sono un tipo curioso. Ma quei pochi di loro che dall’alto si posano su di me, anche solo per un secondo, riescono ad ammutolire perfino i miei pensieri, ed un brivido gelido si espande sulla mia schiena percuotendomi fin dalle fondamenta. Quindi tengo la testa bassa. Per questo la solitudine riesce a divenire essenziale, l’indifferenza un dono. Preferisco di gran lunga la pena dell’isolamento a quella del confronto. Non rallento, non posso permettermi di fermarmi, di riposare anche solo un istante. In alcuni punti il puzzo d’urina si acuisce divenendo insopportabile. Circondato dallo sporco, materiale e morale. Ed io in esso. Un’armata di facce spente. Di tanto in tanto lungo il mio cammino incrocio qualche senzatetto, in un angolo a mendicare o steso su di una panchina che riposa. Il mio primo pensiero va al freddo. Mi chiedo come sia umanamente possibile abituarsi ad una morsa tanto penetrante o anche solo resisterle per più di qualche minuto. Ed io che tremo solamente nel percorrere quei pochi metri che mi separano dal mio treno. Sono meno fortunati mi dico, ad ognuno il suo fardello mi ripeto, e sono certo che questo è la medesima cantilena che rimbomba nei pensieri dei miei spietati compagni di viaggio. Sì, sono sempre più simile a loro. Ma quando la trasformazione sarà completata? Quanto tempo mi resta da scontare come umano? Il virus è riuscito a contagiare anche la mente. Gli passo velocemente ai lati, superandoli come fossero ostacoli, come rifiuti, come fanno gli altri. Eppure nel farlo non posso evitare di lanciare una fugace analisi anche ai loro di volti. Chiamatela deformazione professionale, mio unico effimero passatempo immerso in una routine fattasi prigione. Noto qualcosa, non capisco se sia un qualcosa di più o di meno rispetto al consueto. Sì, sono diversi dagli altri, probabilmente anche da me. Riescono a spezzare per pochi colorati attimi la monotonia che mi circonda. I loro sguardi sono veri, non sono messe i scena come tutti gli altri. Non mentono, non cercano di sembrare altro all’infuori di quello che per natura sono, non vogliono maschere. Sono sinceri. Forse anche loro freddi, duri e disincantati. Ma dannatamente umani. Riescono a scavarmi dentro con occhi del genere. Facce pure ed innocenti, che paradossalmente si possono acquisire solamente attraverso l’esperienza. Sono volti che hanno realmente assaporato la vita, giorno dopo giorno. Ne hanno stoicamente subito ogni colpo, si può leggere la storia dell’orgoglio dell’uomo percorrendo ogni loro ruga o ferita. Non sono prese in giro come tutti gli altri. Sono cariche di cattiveria ed ostilità, ma il bello è che si tratta di una cattiveria che non porta travestimenti, che non prova vergogna di sé stessa. Alla fine di quei pochi istanti mi riscopro desideroso di essere uno di loro, d’essere io su quella gelida panca costretto ad affrontare quotidianamente la vita vera. Selvaggio, come un uomo delle caverne. Invece sono costretto a sopravvivere al posto di vivere, centellinare e filtrare ogni esperienza reale al posto di crescere sfidandola a muso duro. D’altronde come tutti gli altri attorno a me. Come ogni cosa bella, non faccio in tempo ad assaporarla appieno che già è passata, e così continuo a seguire il ritmo del flusso. Ad un certo punto ci ritroviamo tutti sulla banchina d’attesa ed iniziamo ad accalcarci, a dividerci su tutta la sua lunghezza. Manca quasi il fiato, una leggera claustrofobia ne è la causa. Forse anche una rara forma d’allergia agli altri. Pochi minuti aspettando l’arrivo del treno si tramutano in ore. Il tempo perde di significato, forse ci troviamo in un’altra dimensione, in un limbo. Sferragliando e muovendo una violenta folata gelida, finalmente arriva il mezzo, e si ferma davanti a noi. Un antico istinto assopito si desta negli animi di chi mi circonda. Bestiale, selvaggio, l’anima atrofizzata degli albori. Un convulso scontro per salire sul treno nel momento in cui le porte si aprono. È lotta per la sopravvivenza, ce l’abbiamo nel sangue. A fatica riesco a salire. Se prima mancava il respiro, ora la situazione è patologica e palesemente fuori controllo. Vorrei fumare ma non posso. Vorrei fuggire ma non mi è possibile. Il metro appesantito dal nuovo carico riparte implacabile. Tutta questa umanità, così stretta a me dalle circostanze nell’angusto treno mentre procediamo instabili per le buie cavità della terra, riesce forse a fare più paura. Le facce rafforzano la loro carica di cinismo e vacuità. Vorresti gridare, ma l’esperienza ancora una volta ti trattiene e ti salva. Fermata dopo fermata. Sembrano passare anni mentre aspetti in piedi, stanco ed oppresso dalla calca, la tua destinazione. Poi finalmente la vedo, e tutto crolla. In mezzo a quella moltitudine di sporche facce miracolosamente riesco a scorgerla, come un ago in un sudicio pagliaio. Un luminoso ago, un perfetto ago. Incarna ogni massima aspirazione, rappresenta la più decisa rottura con la mia angosciante routine, probabilmente la più intensa che mai riuscirò a provare. Di sicuro la più duratura. Sarà orribilmente banale, ma è bellissima. Non riesco a capacitarmi di come sia possibile che tanta armonia sia lasciata con noncuranza in mezzo a questo nulla. Da questo vuoto lei brilla, da questo vuoto lei esplode come un sole. Imbarazza. Lei è seduta. È davvero impossibile che passi inosservata, eppure accade: non mi capacito di come abbia fatto a non notare prima la sua presenza, non riesco a concepire come questo nulla in cui è immersa riesca a non accorgersi di lei. Dovrebbe sparire, dileguarsi al suo cospetto, invece rimane lì attorno e riesce persino a far finta di niente. Anche lei fa finta di niente, come se non sapesse, come se ignorasse la sua stessa sostanza, il suo potere, la sua luce. Poi per un dolce breve attimo, come se indispettita della mia attenzione si fosse accorta di me, alza quegli occhi ingenui che fino ad un istante prima erano rivolti spensierati e distanti per terra, incrociando il suo sguardo con il mio. Ed è come rinascere. Come immergersi per la prima volta nella vita in acque limpide, fresche. L’apice del piacere, l’apoteosi irraggiungibile persino dalla somma di tutte le gioie. Quella faccia. Quegli occhi. Occhi che sembrano vogliano prenderti per mano e portarti lontano. Al di là del velo, distante da tutti quegli sguardi annichilenti. Non è solo un’impressione o frase fatta buona per messaggi da cioccolatini, è davvero così. Improvvisamente tutto diviene instabile, lo spazio inizia a vorticare, la materia perde ogni forma ed il tempo sovrano ogni potere. Per quel breve secondo. Ti entra dentro e ti trascina nel profondo con lei. Un viaggio mistico, un mondo idilliaco. Non esiste più alcun vecchio treno, più nessuna faccia accusatoria pronta a squadrarti, più nessun circolo vizioso o routine, più nessun gelo mattutino. Lì tutto è etereo, tutto è lucentezza. Non sopraggiunge rumore. Perde di significato il caos di quella che sino ad allora concepivo come realtà, non resta più un senso a concezioni come la sveglia, lo smog, il futuro, il caos o la morte. È come se tutto venisse di colpo sgonfiato, alleggerito. Ma senza violenza, anzi, è un processo salvifico. Limpidi ruscelli scorrono senza sosta in quel luogo lontano, e caldi raggi, e generosa terra verde. Sì, per quel breve secondo assapori la felicità. Quella vera. Non è un illusione. Paradossalmente comprendi che alla fine è la realtà stessa l’unica vera chimera. Sì, felicità. Poi, con il medesimo rapido lampo con cui tutto era cominciato, ogni cosa ha fine. Tutto si sgretola velocemente come un castello di carte in balia della bufera, e senza il tempo di capacitarmene vengo bruscamente ribaltato nelle viscere delle terra. Mi ritrovo nuovamente nel flusso di facce. L’illuminazione che cede il posto alla rassegnazione. Il treno si ferma, lei scende senza voltarsi. Il treno riparte. Aspetto che passino ancora due o tre fermate prima di scendere. Infine, seguendo un piccolo drappello dei soliti freddi volti, esco faticosamente all’aria aperta. Mi concedo un attimo di riposo, mi accosto sul marciapiede, lascio che il flusso prosegua il suo misterioso corso. Guardandomi un po’ attorno mi accendo un sigaretta, poi dopo le prime boccate inizio a contemplare il cielo. È ancora scuro. Ha inizio un’altra giornata.

Matteo Nunner

"Non lo commiserate: volle esser troppo fiero, libero d'atti, come libero di pensiero."

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